Alla vigilia della terza serie, prevista per il 2025, sento di doverlo dire. Non sono arrivata alla seconda.
Con Squid Game ho avuto l’impressione di toccare il fondo. Non so come la pensate voi sulle serie TV, ma io sono una boomer in anticipo. Cresciuta a cartoni animati politicamente scorretti e sit-com con le risate finte. E questo era puro intrattenimento.
Poi c’era il cinema e il cinema era una cosa seria, anche quando faceva ridere. Basti pensare che nella mia top five dei film da rivedere all’infinito ci sono ben tre commedie: Tootsie, Io e Annie e A qualcuno piace caldo.
Per questo credo di essere invecchiata di colpo nel momento in cui le serie TV sono esplose su Netflix. Ricordandomi tanto le telenovelas che guardavano le amiche di mia nonna. Non facevano ridere e non erano nemmeno una cosa seria come il grande cinema. Ah ah ah, fermi. Non datemi ancora addosso. L’ho detto all’inizio che sono una boomer. E so che con questo post posso guadagnare haters da tutto il mondo e beccarmi le critiche della crème de la crème degli intellettuali contemporanei. Ritengono, come ho letto sul sito di una famosa università italiana, che le serie TV siano il veicolo primario della vita culturale moderna.

Tornando a me, la prima serie che ho visto è stata Orange is the New Black, dietro suggerimento della più aggiornata tra le mie amiche degli anni Ottanta, Marisa, nota anche come il dito più veloce del web. Non sono riuscita ad andare oltre la terza puntata e ho iniziato a notare la ricrescita bianca sui capelli.
Poi c’è stata la Casa di Carta. Ma a parte il fatto interessante che gli spagnoli cantavano Bella ciao, non c’era niente che oggi mi faccia venire voglia di rivederla. È vero l’ho mandata giù tutta d’un fiato. Ma ero incinta e costretta a passare una vacanza di una settimana sulle Alpi. Ad agosto. Ci voleva un incubo peggiore di quello che stavo vivendo.
Infine, ho visto i Racconti dell’Ancella. Fonte sempre Marisa, che oltre a essere il dito più veloce del web, l’avrete capito, è anche femminista. Anche in questo caso se ci fossimo fermati alla terza serie nessuno si sarebbe strappato i capelli. Perché?
È che una volta scoperto il trucco, ti senti tradita. E di trucchi le serie sono stracolme. Trucchi per allungare il brodo. Trucchi per lasciarti a bocca asciutta sul finale della puntata, così non puoi fare a meno di dire beh guardiamo almeno l’inizio della prossima. E una volta che hai guardato l’inizio della puntata successiva dirai, vabbè ormai me la vedo tutta, giuro per stasera l’ultima e poi vado a ninna. E alla fine non fai che peggiorare l’insonnia.
Bene, ancora una volta sono caduta nella trappola. Con Squid Game (anno 2021) non dormirete per una settimana. Resterete incollati allo schermo, appesi al filo sottile che separa la vita e la morte, in una giungla ispirata allo stato di natura hobbesiano, dove gli uomini e le donne che sono rimasti ai margini della società, i più poveri e derelitti, sono protagonisti della spietata lotta del tutti contro tutti. Peggio. Mors tua vita mea (io vivrò solo se tu morrai, o giù di lì). La vita è un gioco, ma non lo è.
Ora. Va bene il messaggio filosofico. Va bene la critica sociale. Ma tutto quel ketch-up era proprio necessario? Gli organi che si spappolano, il sangue che schizza da tutte le parti, i corpi murati vivi nelle tombe.
Suvvia, anche meno.
E ora vi faccio una domanda. Quante volte avete avuto voglia di rivedere un film e quante volte avete avuto voglia di rivedere una serie tv?
Sfido che avete visto Mary Poppins almeno dieci volte, ma che se vi proponessero di rivedere Orange is the New black piuttosto vi buttereste dalla finestra. Anche tu, Marisa.
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